“Scuola
di musica riconosciuta per l’anno scolastico 2017/2018 con
determinazione n. 6100 del 27.04.2017 del Responsabile del Servizio
Sviluppo degli Strumenti Finanziari, Regolazione e Accreditamenti della
Regione Emilia-Romagna, di cui alla DGR n. 2254/2009 come modificata
dalla DGR n. 2184/2010”.
Premessa
«Possiamo
dire che il jazz è un virus, un virus di libertà, che si è diffuso
sulla terra, “infettando” tutto ciò che ha trovato sulla sua strada:
il cinema, la poesia, la pittura, la vita stessa». Così il
grande Steve Lacy, in un’intervista raccolta molti anni fa dal
giornalista Filippo Bianchi. La critica accademica ha spesso incontrato
qualche difficoltà, perfino concettuale, nel collocare il jazz
all’interno della storia musicale del Novecento. Forse è un errore di
impostazione; più facile collocarlo nella storia del pensiero del
Novecento, tante e tali sono state – e continuano a essere – le sue
impollinazioni incrociate e influenze reciproche con l’universo
circostante, in un’impressionante varietà di orientamenti: il cinema,
dai cartoons degli anni Venti fino a Woody Allen; la danza, dal fox
trot fino a Carolyn Carlson; la pittura, da Mondrian a Basquiat; la
letteratura, da Fitzgerald a Cortazar; la musica accademica, da
Stravinskij a Penderecki... Altrettanta varietà si può rintracciare
nel suo destinatario sociale, dal pubblico degli scantinati e quello
dei teatri d’opera.
Si dice,
giustamente, che il jazz sia stato la prima forma d’arte nata in
America. Ma non si può dire che il jazz “appartenga” agli americani,
come il fado ai portoghesi o la tarantella ai napoletani. È stata
infatti la prima forma d’arte statutariamente “cosmopolita”, in cui le
varie componenti di immigrati nel Nuovo Mondo traducono in una lingua
comune gli influssi di provenienza, ed il primo “luogo di
comunicazione” nel quale le varie etnie altrimenti impegnate
soprattutto a scannarsi fra loro (polacchi contro italiani, neri contro
cinesi, irlandesi contro ispanici, tutti contro tutti) si trovano
piuttosto a suonare e creare insieme, che è decisamente preferibile.
Multirazziale e multiculturale dalla genesi, il jazz dimostra nella
pratica la natura universale della musica. È anche per quest’indole
permeabile che, già nei primi decenni di vita, il jazz si è diffuso
ad ogni latitudine, pure nelle circostanze più difficili: dall’Unione
Sovietica in cui era considerato “arte degenerata” fino al District Six
di Città del Capo in cui fu unico antidoto all’apartheid.
Le ragioni per cui
l’Unesco ha dichiarato il jazz “patrimonio dell’umanità”, dedicandogli
una giornata celebrativa annuale, non sono solo di ordine musicale, ma
culturale, sociale, politico, psicologico perfino. In un quadro
formativo per le giovani generazioni, riveste particolare importanza la
focalizzazione sull’improvvisazione: la più efficace metafora della
vita, che è notoriamente improvvisata, non scritta. Ma il jazz è pure
metafora dell’intelligenza, che è, fino a prova contraria, corteccia
associativa, capacità di tessere relazioni fra le cose: è lavoro
intellettuale in azione. Si sa che viviamo nell’epoca
dell’informazione, meglio nell’ipertelìa dell’informazione: ci sono
tante di quelle informazioni che finiscono per nascondersi una sotto
l’altra; prese singolarmente sono trasparenti, ma la sovrapposizione
dei loro strati crea un effetto di opacità (il rumore di fondo –
com’è noto – impedisce di distinguere i singoli suoni). Mai nella
storia dell’umanità c’è stato un tempo con una tale facilità
nell’approvvigionamento di informazioni. E tuttavia la ricerca PISA
(Programme for International Student Assessment) ammonisce che
nell’ultimo decennio è esponenzialmente diminuita la facoltà di
mettere le informazioni in relazione fra loro. Giusto quella facoltà
che l’improvvisazione sviluppa, laddove non è tanto importante la
quantità di informazioni di cui disponiamo ma l’uso che siamo in grado
di farne. Come disse Benny Green a proposito di Armstrong: «Anyone can learn what Louis knows about
music in a few weeks. Nobody could learn to play like him in a thousand
years» (Chiunque può imparare in poche settimane quel che Louis
sa sulla musica. Nessuno potrebbe imparare a suonare come lui in mille
anni). Se ne può concludere che l’abilità di improvvisare è una
possibile porta del futuro, per chi solo può vederla.
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